Storie di Bhagavan Sri Ramana Maharshi

“Breve profilo biografico di Bhagavan Sri Ramana Maharshi”

Erano i giorni attorno al Natale. Il 10 di dicembre i devoti di Siva celebravano I’ardradarsana, il giorno sacro in cui Siva apparve a grandi saggi tra cui Patanjali.
Le celebrazioni si svolgevano con grande fasto nella città-tempio di Tiruchuzhi. Nelle prime ore del mattino, mentre la processione in onore di Siva entrava nel tempio di Bhuminateshwara, nasceva Ramana, secondogenito di una coppia molto religiosa, Sundaram Iyer e Azhagammal. Ricevette il nome di Venkataraman.
Nei versi autobiografici “Arunachala Ashtakam” (“Otto strofe su Sri Arunachala”), Ramana scrive: “Dall’età dell’innocenza Arunachala rifulse nella mia mente come qualcosa di incomparabile bellezza”.
Arunachala è la collina sacra di Tiruvannamalai. Benché in forma di collina insenziente, è considerata una manifestazione di Siva, il vincitore della morte. Può darsi che i semi delle domande sul significato della morte fossero stati piantati nella sua mente dal costante pensiero di Arunachala nutrito sin dall’infanzia?
Quando Ramana aveva undici anni, il padre morì. Quel giorno, accanto alla madre e ai fratelli in lacrime, Ramana rifletteva sulla morte. Continuò a riflettere per ore dopo la cremazione del corpo. Di fronte al corpo del padre capì che un’altra forza, diversa dal corpo, doveva essere stata responsabile di tutte le attività di quel corpo e di quella mente. L’impatto con la morte della persona cara e la conseguente introspezione avevano portato Ramana molto vicino a comprendere il fenomeno della vita e della morte.
Era la metà del mese di luglio del 1896. Ramana frequentava la decima classe alla American Mission School a Madurai, ospite in casa dello zio, Subbier, in Chokkappa Naickan Street, vicino al famoso tempio di Minakshi. Mentre studiava nella sua stanza, venne sopraffatto da una paura assoluta della morte. Per capire che cosa accadde, ascoltiamo le sue parole:
“Mi distesi come un cadavere. Sembrava che il mio corpo fosse diventato effettivamente rigido, ma ero ancora cosciente di essere vivo. Così in me sorse la domanda:
‘Che cos’è questo io?’.
Lo avvertivo come una forza o una corrente, un centro di energia che usava il corpo, continuando a funzionare indipendentemente dalla rigidità o dalla mobilità del corpo, e tuttavia in collegamento con esso”.

Quando si fu saldamente radicato in questa intuizione, la paura della morte scomparve. Da quel momento rimase perpetuamente assorbito in quella corrente, qualunque cosa facesse: che leggesse, parlasse o riposasse.
Dopo quell’esperienza, la vita normale non era più possibile. Ramana scivolava spontaneamente in quello che potremmo chiamare samadhi.
Un giorno, mentre era alle prese con un esercizio di grammatica inglese ricevuto per castigo, ‘la futilità del compito gli si rivelò con grande evidenza’.
Mise da parte il libro di grammatica e si perse nel suo ormai usuale stato beatifico.
Quando il fratello maggiore lo rimproverò di trascurare gli studi, Ramana lesse il rimprovero come una chiamata del divino e se ne andò di casa lasciando un foglietto in cui diceva:
‘In cerca di mio Padre e in obbedienza al Suo comando, ho iniziato di qui. Ciò che faccio è lanciarmi in un’impresa virtuosa. Perciò, nessuno si dolga’.
Dopo molte difficoltà, il primo settembre del 1896 raggiunse Tiruvannamalai e Arunachala.
Si recò immediatamente nel tempio e annunciò il suo arrivo dicendo:
‘Padre, sono giunto’.
Per alcuni mesi successivi rimase totalmente immerso nella stabile beatitudine del Cuore, ignaro degli insetti e dei parassiti che devastavano il suo corpo. Si spostò in vari luoghi della città santa mantenendo sempre il silenzio, benché pronto a elargire guida spirituale
se ne veniva richiesto.
Un giorno, mentre stava ritornando alla grotta di Virupaksha, sulla collina di Arunachala, ebbe quella che potremmo chiamare la sua seconda esperienza di morte. Questa volta non si trattò solo della paura di morire, ma della morte stessa.

Ascoltiamo di nuovo le sue parole:
“Improvvisamente il paesaggio davanti a me cominciò a svanire, come ricoperto da un lenzuolo bianco. In un primo momento il processo fu molto graduale, ma presto il paesaggio scomparve del tutto ed io smisi di camminare. Poi riapparve e svanì una seconda volta, lasciandomi così debole che dovetti appoggiarmi alla “Roccia della Tartaruga” per sostenermi.
Quando accadde per la terza volta, mi sedetti vicino alla roccia. Guardandomi intorno non vedevo altro che quel lenzuolo bianco. Mi girava la testa e la circolazione e il battito cardiaco cessarono. Il mio corpo cominciava a diventare livido, esattamente come accade ad un corpo morto. Mentre il fenomeno cresceva di intensità, Vasu credette che fossi realmente morto e iniziò a piangere tenendomi stretto. Il cambiamento di colore del mio corpo, la stretta di Vasu, il tremito delle membra, le parole delle persone attorno a me…ero cosciente di tutto ciò e mi rendevo conto che le mie mani e i piedi diventavano freddi, che il mio cuore aveva smesso di battere, ma in me non c’era paura. Il flusso dei pensieri e la coscienza del Sé non si erano arrestati, e non ero preoccupato per lo stato del mio corpo… Improvvisamente l’energia affluì nuovamente. La circolazione sanguigna e il battito cardiaco erano ripresi”.

La provvidenza l’aveva salvato per i suoi fini, per l’umanità. Benché non fosse avvenuto nessun cambiamento nel suo stato di naturale e spontaneo collegamento con la divinità interiore, il secondo incontro con la morte sembrò segnare, dal punto di vista degli osservatori esterni, l’inizio di una nuova fase di insegnamento spirituale. A poco a poco, Ramana uscì dal suo volontario silenzio.
Maharshi dice che quando ci si risveglia ad uno stato di saggezza stabile, l’effetto sul corpo è paragonabile a quello di un enorme elefante che irrompe in una capanna. Tuttavia, sopportò questa croce per anni, sempre con l’identico incantevole sorriso e il suo spontaneo senso di accoglienza. La sua guida trasformatrice ed elargitrice di vita era a disposizione di tutti.
Non faceva distinzioni di sorta. Non esistevano ‘altri’.
Il suo amore era universale e infinito.
Il 14 aprile del 1950, Venerdì Santo, entrò nel mahasamadhi.
In quello stesso istante, migliaia di persone videro una luce attraversare il cielo, colpire la cima della collina di Arunachala e scomparire dietro di essa, a riprova del fatto che egli è la luce che illumina tutti i cuori.

(tratto dal libro Ramana Maharshi consigli per la pratica spirituale Astrolabio)